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Parametri oggettivi, quali la presenza di docenti e studenti stranieri, ma anche altri più umorali, come il giudizio di accademici internazionali e datori di lavoro: se le classifiche si attagliano perfettamente a guidare ed assecondare la passione sportiva, più raramente risultano altrettanto efficaci quando ambiscono a numerare competenze e apprendimenti, che per natura e antonomasia non sono affatto misurabili. [//]
La World University Ranking 2008, graduatoria stilata annualmente (da oramai 5 anni) dal britannico Times-Higher Education Supplement in collaborazione con Quacquarelli Symonds, ha la pretesa di mettere in fila le migliori università del mondo, forse non troppo conscia dei limiti che i suoi KPI (key performance indicators) pongono – meglio: dovrebbero porre – alle sue ambizioni.
In vetta alla lista di quest’anno finiscono al solito le ben note Harvard, Yale, Oxford e Cambridge. E fin qui: nessuna sorpresa. Quello che crea qualche dubbio, semmai, è la completa assenza dalla top10 di atenei rappresentanti i sistemi cinese ed indiano (raccolti sempre più di frequente sotto il lemma di nuovo conio “Cindia”), diventati oramai – come ci racconta Federico Rampini nel suo “Il Secolo Cinese” – centri di eccellenza dove le migliori famiglie americane fanno a gara per spedire i loro pargoli, per farli diventare i nuovi geek della Silicon Valley asiatica (Bangalore) o nella speranza di farli laureare negli istituti più prestigiosi di Shanghai.
Così, se il 192° posto dell’università di Bologna – 19 posizioni più in basso dello scorso anno, ed unico vessillo tricolore dei “fab200” – dovrebbe creare giuste preoccupazioni, la tentazione di non dare troppo peso ad un sistema di misurazione che pare molto “spannometrico”, per quanto retto parzialmente da indicatori oggettivi, è forte. Anzi, fortissima.
Strumenti quali le scale di Likert hanno recentemente illuso il nostro tempo di poter trasporre tecniche nate nel marketing e buone per analisi e ricerche di mercato a qualsiasi contesto applicativo. Ma esperienze quali quelle del Sole24Ore, dove la vincitrice italica della classifica sulla “Qualità della Vita” Aosta si è vista fregiare nello stesso anno del titolo di “città dal più alto tasso di suicidi”, evidentemente hanno insegnato ancora troppo poco.
Eccezion non è certo fatta per il settore della formazione: l’apprendimento è anzi entità ancor più difficile da misurare che non l’indice della soddisfazione della vita dei cittadini.
Per cercare di coprire con una coperta universale l’intero corpo dell’istruzione, i britannici autori dello studio hanno utilizzato un mix calibrato di parametri oggettivi sapientemente miscelati con altri di carattere qualitativo. Per certificare quali sono le università che lavorano al meglio è stata presa allora in esame la presenza di docenti e studenti stranieri, due parametri che dovrebbero indicare il livello di attrattività degli atenei, il rapporto docenti/studenti e il numero di ricerche scientifiche più citate dai colleghi delle altre università (e qui, ovviamente le università che pubblicano in inglese hanno un vantaggio strategico di non poco conto). Maggior peso percentuale nella media ponderata assumono poi gli indicatori che puntano soprattutto sul livello qualitativo delle ricerche scientifiche condotte nei vari atenei e sulle opportunità di lavoro che si aprono agli studenti che riescono a laurearsi nelle più prestigiose università. E già qui cominciano ad enuclearsi le prime falle del metodo di valutazione: la “bontà” delle opportunità di lavoro dipende infatti non tanto dalle università stesse, che comunque devono lavorare di concerto con le aziende del territorio e non solo per facilitare l’inserimento dei loro futuri laureati nel mondo del lavoro, quanto dalla ricettività e dallo stato di salute del sistema-paese. Fin troppo facile dunque, per i sostenitori delle nostre facoltà, trovare terreno fertile per costruirsi alibi.
Infine, il punteggio è correlato anche al giudizio di 6.354 accademici di livello internazionale e da 2.339 datori di lavoro del settore pubblico e privato sparsi in tutto il mondo, chiamati in qualità di esperti, per il ben noto “Metodo Delphi” a dare una loro opinione sulle università in oggetto. Ed anche in questo caso il metodo dunque espone il fianco ai detrattori, che affermano a ragion veduta che vi sia una buona dose di discrezionalità nell’assegnazione dei punteggi.
Ciò non toglie che è importante che il campanello d’allarme suoni in ogni caso, perché se è vero che l’Università italiana continua a godere di buona stima in ambito quantomeno europeo nei colloqui lavorativi, è altresì noto, come fa notare Ugo Calzolari, rettore di quello che, sempre stando al Verbo della classifica, è il miglior ateneo del Bel Paese, che “il numero di docenti e studenti stranieri dipende dalle nostre capacità economiche. All’estero i docenti guadagnano di più e ospitare studenti stranieri costa”. Eppure, anche fuori dalla penisola funestata dalla protesta anti-Gelmini, che ha attecchito perfino nei licei, il mondo universitario continua a mostrarsi in fermento: già Oltralpe il caso francese in questo senso è lampante. Centinaia di migliaia di studenti sono scesi in piazza a manifestare contro la riforma-Sarkozy, e sono spuntate come funghi associazioni (quali “Sauvons la recherche”: http://www.sauvonslarecherche.fr/) e petizioni online (si veda ad esempio http://math.univ-lyon1.fr/appel/), in maniera del tutto spontanea, a testimonianza di come questo argomento sia uno dei terreni più delicati su cui la politica deve dimostrarsi capace di sapersi muovere.
Calzolari arriva a spingersi sino a previsioni quasi funeste, che lui presenta come profezie ineluttabili: “Non ho difficoltà ad ammettere che nel ranking 2009 forse Bologna uscirà dalla lista delle prime 200 università e gli altri atenei italiani continueranno a scendere in classifica: i recenti tagli del governo non lasciano molti margini”. Il modello di riferimento per tornare in carreggiata, secondo lui, è proprio quello, criticatissimo oltralpe, francese: “Sarkozy ha dato il compito di rilanciare il sistema a dieci poli universitari e stanziato 5 miliardi di euro. In Italia basterebbe individuare 15 atenei che funzionano”.
Certo, ma il problema, ciclico, si riproporrebbe: quali sono i parametri corretti per misurare l’istruzione?
Certamente, la costruzione di un pannello di monitoraggio dello stato di salute delle università mondiali presenta diverse criticità. Alcune di esse risultano strutturali, quasi ontologiche: certi sistemi d’istruzione sono oggettivamente troppo diversi per essere realmente confrontati in maniera omogenea ed imparziale. In qualsiasi tipo di analisi di questo genere, dunque, ineluttabilmente si andrà a perdere tutta una serie di peculiarità tipiche della cultura dell’apprendimento proprie di ogni paese.
Se è difficile dunque piazzare dei sensori lungo il corpo dell’erogazione del processo formativo, risulterà indubbiamente più semplice concentrarsi sull’output. Ovvero, sulla persona formata. Ed è pertanto solo in questo senso che un monitoraggio di tal fatta può assumere un significato degno di tal nome: è allora concentrandosi sull’anello ultimo della catena, quello studente che troppo spesso è messo in un angolo del mondo dell’istruzione, “pesato” allo stesso modo delle infrastrutture nelle aule o nella potenza di calcolo delle macchine messe a disposizione in biblioteca, che si può tentare di ridare una dignità all’insegnamento tutto. Pur rimanendo consapevoli che non è possibile prescindere da un “fattore di rischio” che è insito nell’ontologia della ricerca stessa, e che dobbiamo dunque rassegnarci a non poter misurare.
È comunque solo con la redazione e la somministrazione secondo le regole della campionatura che discendono dalla statistica di appositi questionari simil-test, customizzati sulla singola facoltà e tenenti in considerazione le differenze culturali dei vari studenti, nonché guardando in prospettiva alla spendibilità dello studente in un contesto lavorativo che faccia della competizione su scala mondiale il suo credo, che si può ipotizzare di valutare davvero le competenze maturate dai singoli laureati, e che si possono così stilare classifiche basate sul merito della capacità formativa delle università stesse, esenti da contaminazioni di lingua, cultura e situazione socioeconomica dei paesi in cui si trovano ad operare. Ritornando alle origini, anche se può apparire banale: perché, e non è pleonastico sottolinearlo, è ancora lo studente il fine ultimo dell’insegnamento.

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